taglie forti

Perchè la moda ha scelto di coniugarsi solo ai corpi magri?

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La “notizia” dell’apertura del Calendario Pirelli alle donne dalla sensualità morbida e sinuosa (curvy),  ha riportato alla nostra mente un bell’articolo scritto da Michele Serra nel 2011.  Noi da anni dedichiamo la nostra creatività ed esperienza a tante donne “normali” (piccole, formose, prosperose) che non hanno voluto rinunciare allo stile ed all’eleganza pur essendo ignorate dai canoni di bellezza imposti dagli stilisti. Riproponiamo questo articolo pubblicato su Vogue Italia nel giugno 2011 del quale condividiamo pienamente  le considerazioni fatte da Michele Serra, attento osservatore del costume e della società . Voi che ne pensate?

Michele Serra, Vogue Italia, giugno 2011 (n. 730), p. 120-121

Se fossi la Musa che ispira gli stilisti apparirei loro in sogno e direi: “Recluti solo modelle magre? Escludi le taglie forti? Beh, rifletti sulla triste storia della tigre dai denti a sciabola”. Nei sogni, che sono astrusamente metaforici, non sono richieste ulteriori spiegazioni. Nella realtà sì. Ecco dunque la mia spiegazione.

Nel Villaggio olimpico di Los Angeles (1984), osservando da vicino gli atleti di quasi tutti gli sport conosciuti, fui colpito dall’estrema corrispondenza dei corpi alle rispettive discipline. I cestisti smisuratamente alti, i pallavolisti appena di meno, i lottatori tarchiati e con le spalle molto larghe, gli schermidori con glutei e gambe più sviluppati del busto, i mezzofondisti magri e con il bacino stretto e alto, i pesisti e i discoboli sformati dalla loro stessa potenza, i saltatori in alto slanciati e nervosi…

Pur ammirando la fantastica capacità di adattamento di donne e uomini ai vari sport, capii perché il calcio è lo sport più popolare del pianeta. Lo possono giocare, e con risultati di eccellenza, nani e giganti, uomini-trottola con le gambe corte e il baricentro quasi a terra e uomini-gru dalla grande falcata, corpi poderosi e corpi esili, corpi armoniosi e corpi sgraziati. Il calcio è il meno specializzato di tutti gli sport, e la specializzazione – almeno secondo gli evoluzionisti – non è un buon viatico per la longevità della specie: pare che homo sapiens abbia fatto una carriera così irresistibile, arrivando a popolare anche gli habitat più remoti, proprio perché, non sapendo fare niente di speciale, fu costretto a ingegnarsi. Mentre la tigre dai denti a sciabola, proprio per via dei lunghi denti a sciabola dei quali sicuramente andava molto orgogliosa, si estinse quando fu costretta a cacciare prede più piccole: i denti a sciabola erano diventati solo un maledetto impiccio, come cercare di infilzare un topolino con una scimitarra.

Mi sono sempre chiesto – non trovando risposta – perché un’attività umana importante e universalmente ammirata come la moda si comporti come la tigre dai denti a sciabola. Frequento per lavoro un quartiere di Milano popolato da bellissime, altissime, magrissime modelle, e quando le incontro mi fanno pensare ad atlete di una disciplina ultra-specializzata. Il canone estetico che le qualifica è così preciso da essere inconfondibile. È difficile incontrare per strada una modella senza pensare “ecco una modella”, così come è difficile incontrare un giovane atletico alto più di due metri senza pensare “ecco un cestista”, e un uomo anziano abbronzato, con i capelli argentei, un abito blu e una cravatta costosa senza pensare “ecco un uomo che fa parte di almeno un consiglio di amministrazione”.

Che noia… Immagino che questa situazione conferisca alle modelle una forte identità di corporazione, oltre che di corporatura: dev’essere piuttosto gratificante guardarsi allo specchio e non avere dubbi: “sono proprio una modella”. Ma chi, come e perché ha deciso di incidere i canoni della bellezza e dell’eleganza su una tavola così sottile? E proprio in un periodo storico così “free”, che ai canoni ha voluto e saputo rinunciare, li ha scompigliati e contraddetti nel costume, nell’eros, nell’estetica, nella politica?

Perché escludere dalla festa dello sguardo pubblico le prosperose, le formose, le piccole, starei per dire “le normali” se non temessi di ricadere in un ulteriore canone? Perché, per vestire le ignude, non si parte dalle ignude invece che dai vestiti? Senza scomodare il solito Botero, e senza la spiegazione piuttosto arcaica della corpulenza femminile come garanzia di prosperità e progenie sicura, è la vita quotidiana a suggerirci che l’eros offre uno spettro molto largo di rappresentazioni. Il corpo femminile, ben più di quello maschile, ha dovuto acconciarsi, nei diversi secoli e nelle diverse culture, a canoni ben più rigidi rispetto ai maschi.

Proprio per questo, se c’è una novità storica della quale il consorzio degli umani occidentali può andare fiero, è proprio la restituzione delle donne – almeno sulla carta, ed è già qualcosa – alla libera interpretazione di se stesse. Criteri di buona salute (anoressia da un lato, obesità dall’altro) sono i confini, a ben vedere molto distanti tra loro, di un territorio estetico molto vasto, nel quale possono vivere serenamente femmine di molte taglie differenti. Lo stato maggiore della moda ha piantato le sue tende, per decenni, in prossimità di uno dei due confini, quello dell’anoressia, perdendo l’occasione (anche creativa, immagino) di misurarsi con un campo di battaglia immensamente più vasto e spettacolare. Se questa restrizione dello sguardo sociale – il corpo femminile di nuovo prigioniero, e prigioniero della magrezza – fosse stata universale, cioè dell’intero immaginario, dello star system al completo, una scelta così escludente sarebbe stata meno vistosa.

È vistosissima, invece, se proviamo a ripassare quanto il cinema, la fotografia, la pubblicità, la pornografia abbiano reso omaggio, al contrario, alle curve che rendono il corpo femminile immediatamente distinguibile da quello maschile. Dalle pin-ups alle maggiorate, dalle playmates alle fatalone scollate, nessun ostracismo è stato dato alle forme femminili, e tanto l’immaginario erotico trash quanto quello snob non conoscono la specializzazione filiforme della moda.

Neppure la leggerezza ammaliante di Brigitte Bardot, diva della modernità per eccellenza, prevedeva di fare a meno dei suoi tondi: portarli liberamente non significava certo liberarsene. Gambe magre e slanciate incarnavano la capacità di fuga – la libertà. La minigonna e il bikini le hanno ornate senza mai ostacolarle. Seni e sederi popolano lo sguardo moderno con puntualità non sempre benvoluta: ci sono paesi, e l’Italia è tra questi, dove l’onnipresenza televisiva di quelle parti anatomiche ha assunto una dimensione bulimica.

Si sarebbe quasi grati alla moda se l’occultamento delle forme fosse una cosciente polemica contro l’ossessione del seno e del sedere femminile, contro quella morbidezza, tra il materno e il bamboleggiante, che tanto rassicura il maschio, specie quello latino. Fosse un atto di pudore, perfino di censura, si sarebbe più indulgenti.

Viene da pensare, invece, alla magrezza obbligatoria come a una comodità tecnica (le modelle come grucce, ideali per far cadere gli abiti con soffice grazia) che impone (alle donne, tanto per cambiare) un canone non più morale o sociale, ma tecnocratico. Un freddo calcolo industriale, però di corto respiro, e imprevidente, perché ogni rigidità dei canoni, ogni fissità estetica inaridisce la fantasia, impedisce adattabilità, mutamento, insomma nasconde il futuro. Nascondere le forme uguale nascondere le donne uguale nascondere il futuro.

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